Peta, Petuccia e Pitina, le 3 bisbetiche
In zone tradizionalmente povere, come quelle delle valli a nord di Pordenone, se si uccideva un camoscio o un capriolo, o se si ferivano o ammalavano pecore o capre, andava trovato un modo per non sprecare nulla. Da queste esigenze di conservazione delle carni nacquero la pitina e le sue varianti peta e petuccia, che differivano dalla pitina per le diverse erbe aromatiche aggiunte nell’impasto e, nel caso della peta, per le dimensioni più grandi della ricetta originale.
La Pitina, nata in Val Tramontina e ancora prodotto tipico della zona nonché Presidio Slow Food, viene ottenuta da carni di ovino o caprino o selvaggina, con una piccola aggiunta di lardo di maiale. Peta e petuccia sono invece più diffuse in Valcellina e sono generalmente composte da carni di bovino, suino e selvaggina.
Il procedimento è però simile: con la carne macinata si formano delle polpette, aggiungendo sale, pepe, aglio ed erbe aromatiche, che vengono passate nella farina di mais e che in antichità venivano affumicate bruciando legno di pino. Una volta affumicata la pitina poteva resistere per molti mesi e diventava quindi un riferimento nella dieta dei tramontini.