Peta, Petuccia e Pitina, le 3 bisbetiche

In zone tradizionalmente povere, come quelle delle valli a nord di Pordenone, se si uccideva un camoscio o un capriolo, o se si ferivano o ammalavano pecore o capre, andava trovato un modo per non sprecare nulla. Da queste esigenze di conservazione delle carni nacquero la pitina e le sue varianti peta e petuccia, che differivano dalla pitina per le diverse erbe aromatiche aggiunte nell’impasto e, nel caso della peta, per le dimensioni più grandi della ricetta originale.

La Pitina, nata in Val Tramontina e ancora prodotto tipico della zona nonché Presidio Slow Food, viene ottenuta da carni di ovino o caprino o selvaggina, con una piccola aggiunta di lardo di maiale. Peta e petuccia sono invece più diffuse in Valcellina e sono generalmente composte da carni di bovino, suino e selvaggina.

Il procedimento è però simile: con la carne macinata si formano delle polpette, aggiungendo sale, pepe, aglio ed erbe aromatiche, che vengono passate nella farina di mais e che in antichità venivano affumicate bruciando legno di pino. Una volta affumicata la pitina poteva resistere per molti mesi e diventava quindi un riferimento nella dieta dei tramontini.

La produzione è molto diffusa anche a livello famigliare ed in tal caso forma, peso ed ingredienti possono variare a seconda della ricetta “della casa”. Nel paesino di Andreis l’impasto viene addirittura richiuso ed insaccato in tela di canapa. 

Da quanto è possibile ricostruire, l’origine della pitina sarebbe riconducibile alla località di Frassaneit, un piccolo borgo del comune di Tramonti di Sopra da cui dista circa cinque chilometri. L’etimo di questa località deriva quasi sicuramente dalla presenza di boschi di frassino che vennero tagliati durante il Medioevo per ricavarne prati a pascolo. Questa frazione venne abbandonata dagli ultimi abitanti alla fine degli anni cinquanta e, allora come oggi, si raggiunge solo a piedi seguendo il percorso di una vecchia mulattiera.

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